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Nel 1991, due scommettitori inglesi, John Carter e Paul Simons, misero a segno una delle operazioni più audaci e redditizie nella storia delle scommesse sportive del Regno Unito. La loro impresa, passata alla storia come “The Hole-in-One Gang”, è un esempio magistrale di come la conoscenza, la strategia e un pizzico di audacia possano trasformare un’idea apparentemente folle in un successo straordinario.

L’intuizione geniale

Carter e Simons, entrambi con un background nel settore delle scommesse, avevano un vantaggio cruciale: sapevano che i bookmaker indipendenti spesso non disponevano delle risorse o delle competenze per analizzare sport di nicchia come il golf. Inoltre, erano ben consapevoli di un mito diffuso tra i bookmaker: fare un “hole-in-one” (mandare la palla in buca con un solo colpo su una buca par 3) era considerato un’impresa quasi impossibile.

Le statistiche, però, raccontavano una storia diversa. Per un giocatore dilettante, le probabilità di realizzare un hole-in-one sono di circa 12.500 a 1. Ma per i professionisti, specialmente in tornei di alto livello con 144 partecipanti, le probabilità aumentano notevolmente. Secondo la National Hole-In-One Insurance (NHIO), le chance che almeno un giocatore faccia un hole-in-one durante un torneo di quattro giorni sono pari a 1 a 1, ovvero il 50%. Carter e Simons capirono che molti bookmaker non erano al corrente di queste statistiche e offrivano quote esageratamente alte, arrivando persino a 3.20 per evento.

La strategia vincente

I due decisero di sfruttare questa discrepanza tra le probabilità reali e quelle offerte dai bookmaker. Piazzarono una serie di scommesse su quattro importanti tornei di golf del 1991:

  1. US Open
  2. European Open
  3. Volvo PGA Championship
  4. Benson & Hedges International Open

Non si limitarono a scommettere su singoli eventi, ma utilizzarono combinazioni come doppie, triple e accumulator, sfruttando le quote gonfiate offerte dai bookmaker indipendenti. In sostanza, scommisero che in ciascuno di questi tornei ci sarebbe stato almeno un hole-in-one, ottenendo quote fino a 100 a 1 sulla multipla da 4 eventi.

Il miracolo si avvera

Quello che accadde dopo sembra uscito da una sceneggiatura hollywoodiana. In ognuno dei quattro tornei ci fu almeno un hole-in-one:

  • US Open: Nick Price realizzò un ace.
  • European Open: David Feherty fece lo stesso.
  • Volvo PGA Championship: Richard Boxall colpì un hole-in-one.
  • Benson & Hedges International Open: Peter Teravainen completò la serie.

I bookmaker si trovarono costretti a pagare somme enormi. Carter e Simons vinsero circa £400.000, equivalenti a quasi £800.000 oggi, considerando l’inflazione. Tuttavia, non tutti i bookmaker furono disposti a pagare: alcuni si rifiutarono, altri chiusero bottega per evitare di saldare il debito.

Perché funzionò?

  1. Conoscenza delle probabilità: Carter e Simons sapevano che le quote offerte dai bookmaker erano sbagliate. Le probabilità reali di un hole-in-one in un torneo professionistico erano molto più alte di quanto i bookmaker pensassero.
  2. Psicologia dei bookmaker: I bookmaker indipendenti, spesso poco esperti di golf, sottovalutarono il rischio.
  3. Audacia e pianificazione: I due non si limitarono a scommettere su un singolo evento, ma diffusero il rischio su più tornei e utilizzarono combinazioni di scommesse per massimizzare le vincite.

L’eredità della Hole-in-One Gang

La storia di Carter e Simons è diventata un caso di studio nel mondo delle scommesse, dimostrando come una combinazione di conoscenza, strategia e coraggio possa portare a risultati straordinari. Inoltre, ha messo in luce le lacune dei bookmaker indipendenti nel valutare sport di nicchia come il golf.

Oggi, questa vicenda è ricordata come uno dei più audaci e intelligenti “colpi” nella storia delle scommesse britanniche. E, come spesso accade con le leggende, continua a ispirare scommettitori e appassionati di sport in tutto il mondo.

Qual è il morale della storia nel mondo delle scommesse moderno? Che adesso non ci sono allibratori indipendenti a meno che non si faccia una sconsigliabile visita “underground”. Che i bookmakers di oggi sono molto più preparati, con squadre di analisti, algoritmi e supercomputer. Ma alla fine dei conti, mai dire mai, se uno scommettitore è veramente preparato in un settore di nicchia, può avere ancora la possibilità di scovare una “prop bet” che qualche bookie ha studiato o quotato in modo errato. Ricordate, chi cerca, trova.

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